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Blocco di Trump e Parler, a rischio la democrazia: ecco una possibile soluzione - Intervento di Guido Scorza

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Blocco di Trump e Parler, a rischio la democrazia: ecco una possibile soluzione
Il vero problema è che per la prima volta nella Storia un’oligarchia di aziende può decidere della libertà di espressione di vari soggetti al mondo. Imponiamo alle piattaforme di fornire alle nostre Autorità risorse tecnologiche ed economiche per amministrare vera giustizia anche d’urgenza

Intervento di Guido Scorza, Componente del Garante per la protezione dei dati personali
(Di Guido Scorza e Alessadro Longo, Agenda Digitale, 12 gennaio 2021)

“Riteniamo che i rischi di permettere al Presidente di continuare a utilizzare il nostro servizio durante questo periodo siano troppo grandi” ha scritto nei giorni scorsi Mark Zuckerberg sul suo profilo Facebook per spiegare la decisione di bloccare il presidente uscente Donald Trump e ha poi aggiunto “gli eventi scioccanti delle ultime 24 ore dimostrano chiaramente che il presidente Donald Trump intende utilizzare il tempo che gli rimane in carica per minare la transizione pacifica e legittima del potere al suo successore eletto, Joe Biden” mentre “Dopo la certificazione dei risultati elettorali da parte del Congresso, la priorità per l’intero Paese deve ora essere quella di assicurare che i restanti 13 giorni e i giorni successivi all’inaugurazione passino pacificamente e secondo le norme democratiche stabilite”.

Facebook capo di Stato non eletto

Abbiamo deciso di bloccare Trump a difesa della democrazia, insomma, dice il fondatore di Facebook.

E parla più come il Presidente di uno Stato sovrano rivolto ai suoi cittadini che come il CEO di una corporation.

Come è noto l’esempio di Facebook è stato, poi, seguito a ruota, tra gli altri, da Twitter e Snapchat mentre, nelle scorse ore, Apple e Google hanno addirittura bannato dai loro store Parler, il social network attraverso il quale, grazie alle policy più indulgenti in fatto di rimozione dei contenuti, i ribelli dell’invasione del Congresso hanno organizzato – e continuano a organizzare – la loro protesta.

Parler ucciso per “editto bulgaro”

Non solo: Parler è stato buttato fuori dalla rete quando anche Amazon, che lo ospitava, ha tagliato la spina e ad abbandonarlo sono stati tutti i suoi fornitori di servizi digitali, di conseguenza. Un piccolo gruppo di aziende ha quindi decretato (“editto bulgaro”, diremmo forse noi qui in Italia) la fine di un servizio che ospitava discussione libera, forse troppo libera ma comunque una discussione, di cittadini. Difficile immaginare qualcosa di più lontano dai principi che, dagli anni 90, hanno garantito fino a oggi – o forse dovremmo dire fino a ieri – la non responsabilità degli intermediari internet per i contenuti terzi.

Ma quanto è avvenuto dà ben la cifra di quanto internet sia cambiata negli ultimi anni e sia ancora probabilmente destinata a mutare, forse radicalmente, nei suoi principi giuridici fondanti.

Libertà di parola contro libertà di impresa

Naturalmente, benché ammantati di un significato democratico, tutti i blocchi sono formalmente adottati semplicemente per violazioni delle policy delle grandi piattaforme.

Nella sostanza, dunque, gli account presidenziali così come quelli attraverso i quali Parler era distribuita agli utenti di Apple e Google sono stati rimossi per una violazione contrattuale ovvero per non aver gli utenti rispettato le regole accettate – più o meno consapevolmente – al momento dell’iscrizione al servizio.

E, in entrambi i casi, i blocchi, inesorabilmente, limitano o, almeno, si può sostenere limitino, l’esercizio di diritti e libertà fondamentali: la libertà di parola in un caso e la libertà d’impresa in un altro.

All’indomani del blocco il mondo si è diviso tra quanti si sono schierati dalla parte dei gestori delle piattaforme plaudendo all’iniziativa e, anzi, in taluni casi rimproverandoli di aver atteso sin troppo prima di intervenire e quanti, al contrario, hanno contestato le iniziative assunte dai giganti del web.

I diritti delle piattaforme a bloccare

Esistono due livelli diversi di possibile analisi della questione.

Un primo rigorosamente giuridico, de iure condito, e un secondo più politico nel senso più alto del termine ma, al tempo stesso, di governo del futuro, de iure condendo.

Qualche considerazione sul primo.

I gestori delle piattaforme, nel procedere come hanno proceduto, hanno esercitato diritti che contrattualmente si riservano nei confronti di tutti gli utenti – Trump e Parler inclusi – nell’ambito dei propri termini di servizio nei quali l’ipotesi di un blocco dell’account e/o della rimozione di un contenuto è espressamente contemplata.

Difficile, dunque, contestare le decisioni assunte salvo sostenere – operazione per la verità non semplice – che né Trump, né Parler, prima del blocco e della rimozione, avessero violato i termini d’uso delle piattaforme in questione legittimando così la reazione dei gestori.

E non basta perché, a ben vedere, Facebook, Twitter, Apple e Google hanno anche adempiuto a più o meno stringenti obblighi di legge presenti tanto nell’Ordinamento americano che in quello europeo secondo i quali il gestore di una piattaforma pur non dovendo monitorare le condotte dei propri utenti, se non vuole risponderne in prima persona, ha l’obbligo di rimuovere i contenuti illeciti da questi ultimi pubblicati una volta che ne viene a conoscenza.

Insomma, se ci si ferma a questo livello di analisi sembrerebbe non potersi che concludere che i gestori delle piattaforme coinvolte nella vicenda potevano e, forse, anzi, dovevano agire esattamente come hanno agito.

Ma, naturalmente, che le leggi, oggi, facciano propendere la bilancia dalla parte degli over the top, non impone di condividere quanto accaduto anche sotto altro livello di analisi, più politico, prospettico, de iure condendo.

La questione più complessa: la democrazia della (e con la) Rete

E sotto tale secondo profilo la questione è decisamente più complessa.

Vale la pena, innanzitutto, chiarire che per affrontare in maniera seria la questione occorre sforzarsi di prescindere dal caso di specie, dagli eccessi di Trump, dal suo strizzare l’occhiolino alla violenza e continuare a provare a sovvertire il risultato elettorale così come dalle conseguenze dell’eccessiva indulgenza di Parler.

È, fuor di dubbio, infatti che nella vicenda all’origine di questa riflessione le decisioni di Facebook, Twitter, Apple e Google sono, probabilmente, nel merito condivisibili.

Se non fossero state adottate, gli eventi sarebbero degenerati o, almeno non lo si può escludere.

Ma non si può valutare una questione di questo genere partendo da un caso limite, né sovrapporre piani di discussione diversi: una cosa è la legittimità delle condotte di Trump e Parler e una cosa diversa è la sostenibilità democratica, specie in una prospettiva futura, dell’approccio alla questione da parte di Facebook & C.

E in questi termini la questione si presenta diversa.

Può un soggetto privato decidere di diritti e libertà fondamentali?

È difficile, infatti, condividere l’idea che, in democrazia, decidere di diritti e libertà fondamentali possa toccare a un soggetto privato che agisce per contratto, legittimamente mosso dalla logica del profitto e chiamato a rispondere, innanzitutto, ai suoi azionisti.

È probabilmente alla luce di questi principi, che un costituzionalista come Cesare Mirabella, presidente emerito della Corte di Cassazione, ieri a l’Agi ha detto che no, i soggetti privati non possono bloccare un profilo social. A farlo deve essere un’Autorità. Il blocco del profilo social equiparato quindi alle regole con cui, anche in Italia, serve un giudice (o in certi casi un’autorità amministrativa) a oscurare un sito web. Si arriva a questa equiparazione solo se si considera il valore del profilo social come eccedente il mero esercizio di un rapporto contrattuale e se ne riconosce il suo senso ultimo di necessario strumento espressivo di un diritto fondamentale. Perché, allo stato dell’attuale concentrazione di mercato, chi è bloccato sui social è un po’ come se fosse oscurato dal web: perde una dimensione unica e insostituibile di espressione e connessione con altre persone.

In democrazia non tocca a un soggetto privato neppure se si tratta del più grande social network della storia, decidere quando è arrivato il momento di ordinare l’ostracismo di un cittadino in ragione di quel che dice o scrive online, neppure o, forse, a maggior ragione, se si tratta del Presidente in carica degli Stati Uniti d’America.

Se i social network rappresentano, come molto spesso si dice, la più grande piazza pubblica della storia dell’umanità allora quello ordinato nei giorni scorsi da Facebook e Twitter è a tutti gli effetti un ostracismo e l’ostracismo è un istituto giuridico nato nella democrazia ateniese del 500 a.c. con il quale, all’esito di una votazione – e solo all’esito di una votazione – il popolo condannava chi avrebbe potuto rappresentare un pericolo per la democrazia all’esilio per dieci anni.

E, nelle moderne democrazie, l’adozione di qualsiasi provvedimento che limiti la libertà di un cittadino deve necessariamente competere a Giudici e Autorità indipendenti e essere adottato applicando leggi varate dal Parlamento.

Ogni deroga a questo principio, non ha importanza quanto giusta nella sostanza e quanto capace di garantire in tempi rapidi un risultato pure largamente condiviso rappresenta una scorciatoia democraticamente inaccettabile e una restaurazione del principio machiavellico secondo il quale il fine giustifica i mezzi.

Non tocca, non può toccare e non dove toccare a una società privata adottare un provvedimento di ostracismo mediatico neppure dinanzi alla più evidente delle violazioni delle regole democratiche.

Se si accetta, per comodità, per semplicità, per rapidità, l’alternativa che i social network, in questa vicenda, ci hanno proposto e, anzi, imposto, la cura risulterà, nel medio periodo, peggiore del male e i rischi per la democrazia superiori a quelli che si vorrebbero evitare.

Facebook e Twitter, quindi, hanno sbagliato. Il loro gesto è sovversivo rispetto all’ordine democratico tanto quanto quello di un Presidente in carica che non accetta il risultato delle urne e di lasciare il posto al suo successore.

Come risolvere il dilemma?

Ma se questa conclusione, per quanto forse impopolare, è facile, più difficile è rispondere alla questione immediatamente successiva che essa pone: come si risolve, allora, il problema che pure certamente esiste dell’esigenza crescente di arginare gli abusi di libertà di parola nella dimensione digitale?

Che in principio sia compito di Giudici e Autorità, infatti, è risposta evidentemente insoddisfacente stante il fatto che, allo stato, Giudici e Autorità non sono in grado di confrontarsi in maniera efficiente e efficace con il fenomeno per ragioni essenzialmente quantitative.

Digital Services Act e Digital Markets Act

Il Digital service act presentato nei giorni scorsi dalla Commissione europea, d’altra parte, pur avendo l’ambizione di risolvere il problema non sembra, allo stato, risolvere il problema.

Le nuove regole, infatti, perpetuano il modello attuale nell’ambito del quale, nella sostanza, si delega agli intermediari della comunicazione, un ruolo importante nella gestione dei contenuti online, obbligando, specie i più grandi, alla rimozione di quelli illeciti anche a prescindere da un ordine di un Giudice o di un’Autorità.

Per quanto il Digital services act, come il suo fratello Digital Markets Act certo facciano qualche significativo passo avanti nella direzione di ridare agli utenti le chiavi dell’informazione digitale (un po’ come ambisce a fare il Gdpr, nei confronti dei nostri dati). Che ora – per la prima volta nella storia – intermediata a livello globale da una oligarchia di soggetti, come dice il filosofo Luciano Floridi dell’università di Oxford (apprezzando questi interventi europei).

Ma, come detto, non basta. Aumentando la responsabilità di moderazione si rischia persino di aumentare il potere delle piattaforme; motivo per cui alcuni esperti (si veda il MIT) sono contrari ad eliminare le garanzie del Section 230 americano perché si ridurrebbe la competizione (tagliando fuori tutte le piattaforme piccole non in grado di prendersi carico di questa nuova responsabilità) e aumenterebbe il rischio di censura. Il MIT suggerisce di aumentare, piuttosto, la competizione, favorendo le condizioni per la nascita di concorrenti. Ad esempio, appunto con azioni antitrust. Ma anche – come prova l’Europa, in effetti, con il Digital Markets Act – obbligando le grandi piattaforme a dare accesso a terzi ai propri dati e permettendo agli utenti una vera data portability tra piattaforme.

È necessario ripensare alla base i rapporti di forza fondamentali, per riequilibrarli, con numerose azioni complementari.
Una possibile soluzione

Una possibile soluzione

Una soluzione al dilemma, quindi, potrebbe essere forse rappresentata dal modificare radicalmente l’approccio verso i gestori delle grandi piattaforme: non chiediamo loro più di tenere la rete pulita amministrando pseudo-giustizia privata ma chiediamo loro di fornire ai nostri Giudici e alle nostre Autorità risorse tecnologiche e, eventualmente, anche economiche per amministrare vera giustizia anche in via sommaria e d’urgenza.

Riduciamo quindi il loro potere decisionale e rimettiamolo nelle mani della comunità, civile e politica; ossia su quei delicati binari democratici fatti di libere elezioni, Stato di diritto, separazione di poteri. Ben diversi dalla monorotaia digitale del decisore unico, che risponde solo agli azionisti (e Zuckerberg manco a quelli).

Questa soluzione è affine alla via, ipotizzata negli Usa e in Europa, di ridurre il potere delle grandi piattaforme con azioni antitrust.

In conclusione

La dimensione digitale non è altro rispetto alla società nella quale viviamo e, anzi, è la dimensione nella quale viviamo e vivremo sempre di più con la conseguenza che non c’è ragione per ritenere che la risposta dello Stato a un illecito che si consuma nella dimensione digitale debba essere diversa, nel metodo, rispetto a quella a un illecito che si consuma nella dimensione fisica.

E questo è vero soprattutto se ci fermiamo un istante a pensare che, oggi, il problema è se è o meno democraticamente sostenibile che Facebook & C. silenzino qualcuno online ma, domani – ma domani per davvero – in una società sempre più digitale e connessa, lo stesso problema si porrà per un numero crescente di condotte.

Sarà un soggetto privato a poter decidere – magari in automatico, con algoritmi che scattano in automatico, intelligenza artificiale o smart contract su blockchain –  di chiuderci fuori da casa se non paghiamo l’affitto, a tener spento il motore dell’auto se non paghiamo una rata del leasing o se abbiamo collezionato troppe multe per eccesso di velocità, a spegnerci le luci se non paghiamo la bolletta.

Probabilmente, nel merito contrattuale, la decisione sarà sempre giusta ma nel metodo?

È davvero auspicabile rinunciare alla giustizia dei Giudici e delle Autorità solo per far prima?

La domanda è retorica, la risposta negativa. In democrazia la miglior giustizia possibile, quella più giusta, terza, indipendente ancorché non infallibile è quella di Giudici e Autorità specie quando in gioco ci sono diritti e libertà fondamentali.