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Appena nati e già online - Intervento di Guido Scorza

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Appena nati e già online
Intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali
(Specchio, 8 gennaio 2023)

Nel 2022 gli utenti di Internet sono stati oltre cinque miliardi, un terzo dei quali bambini e adolescenti. Alla più parte di noi, probabilmente, sembra normale ma non lo è. Internet non è stata disegnata, progettata e sviluppata per i più piccoline per i più giovani, con la naturale conseguenza sulla quale raramente ci fermiamo a riflettere che non tutto, online, è per tutti, ovvero adatto a utenti di ogni età.

Dovremmo fare lo sforzo di immaginarci Internet come un enorme parco di divertimenti - pur consapevoli che è molto più di questo - nel quale ci sono attrazioni per tutti e attrazioni riservate a chi ha almeno una certa età o una certa altezza. Se chi è più piccolo o più basso sale su un trenino le cui cinture di sicurezza sono progettate per trattenere al sedile chi è più adulto o più alto, sfortunatamente, non c'è niente che si possa fare per garantirgli un giro di giostra sicuro. La più parte delle piattaforme e dei servizi digitali è espressamente riservata a un pubblico più o meno adulto, tredici anni l'età minima più diffusa, quella, ad esempio, per usare TikTok, Instagram, Whatsapp o YouTube. Eppure i più piccoli vivono letteralmente in questi parchi dei divertimenti. Come è possibile?

La risposta è tanto semplice quanto disarmante e la offre una ricerca recentemente commissionata dall'Ofcom, l'autorità inglese per le comunicazioni: un terzo dei bambini tra gli otto e i diciassette anni online fingono di essere più grandi per usare social media, app di gaming e siti di condivisione dicontenuti anche pornografici. Stiamo parlando più o meno di cinquecento milioni tra bambini e adolescenti. Ma naturalmente non è tutta colpa loro. La stessa ricerca, infatti, racconta che due terzi di loro sono aiutati a farlo dai propri genitori. E, in effetti, senza uno smartphone, un abbonamento telefonico, una carta di credito, un indirizzo mail è difficile, se non impossibile, diventare utentidi una piattaforma social.

E non basta. I gestori delle grandi piattaforme, infatti, nella più parte dei casi, tendono a bersi le bugie dei loro piccoli utenti. E lo fanno essenzialmente per non rinunciare a centinaia di milioni di utenti che significano miliardi di dati personali di straordinario valore sul mercato della pubblicità. Perché quei bambini e quei ragazzini, una volta online, sono destinati letteralmente a pagarsi in dati personali il diritto a guardarsi un cartone animato, a condividere video di ogni genere, a scambiare quattro chiacchiere in questa o quell'app di messaggistica, a giocare a un videogame e, talvolta, persino a studiare.

Online, infatti, tutto sembra gratis ma niente lo è per davvero: quando il giostraio non ci chiede di pagare il biglietto in denaro è perché, come dicono i più attenti, il prezzo siamo noi o, meglio, sono i nostri dati. Dati personali contro servizi è il modello di business globale dell'ecosistema digitale. E dire che la disciplina europea sulla protezione dei dati personali il famoso GDPR dice espressamente che sotto i sedici anni - quattordici in Italia - un bambino non è in grado di prestare al fornitore di un servizio digitale il consenso a trattare i suoidati. Ma, naturalmente, se quel bambino dichiara di essere più grande e il gestore gli crede, il problema è risolto o, almeno, online, si fa spesso finta che sia cosi.

E, non solo, da genitori non facciamo abbastanza per tenere bambini e adolescenti fuori da quelle app e piattaforme che sono riservate ai più grandi, non solo spesso supportiamo la loro aspirazione a esserci comunque, ma, sempre più spesso, ce li spingiamo noi stessi e, anzi, ce li sbattiamo letteralmente a prescindere da ogni loro partecipazione, condividendo orgogliosamente sui social quantità enormi di foto e video dei figli: il loro primo vagito, poi il primo bagnetto, il primo compleanno, il primo giorno di scuola. Secondo uno studio della Northumbria University, più dell'80% dei bambini britannici è presente online prima che compia due anni, una percentuale che, secondo il New York Times, sale al 90% per i bambini americani.

Prima del quinto anno di età un bambino qualsiasi ha circa 1500 foto sul web. E, naturalmente, lo facciamo mossi dai più nobili sentimenti ma senza porci l'unica domanda che, invece, probabilmente, dovremmo porci: lo stiamo facendo nell'interesse di nostro figlio? Perché se su una cosa diritto e etica, in relazione all'educazione dei più piccoli, vanno d'accordo, è che è l'interesse del minore a dover guidare ogni scelta genitoriale che lo riguarda. Se ci ponessimo questa domanda, probabilmente, il più delle volte resisteremmo all'umana tentazione di condividere sui social ogni istante della vita dei nostri figli perché non è nel loro interesse ritrovarsi, tendenzialmente per sempre, a doversi confrontare con immagini pubblicate dai loro genitori quando erano più piccoli, magari diversi da come, crescendo, desidereranno essere guardati dal mondo, privati, in qualche modo, di uno dei diritti più importanti: quello all'autodeterminazione della propria identità personale che, negli anni che stiamo vivendo, è essenzialmente plasmata da ciò che di noi i social- networks anno e raccontano.

Normalmente a questo punto della storia qualcuno alza le spalle, sorride, ti guarda negli occhi e ti dice che sarà anche cosi ma non vede il problema e non capisce perché bisognerebbe preoccuparsi così tanto di tenere i più piccoli o anche solo i più giovani lontani da certe piattaforme o servizi digitali o di evitare di condividere ooro foto o video. Eppure rischi e pericoli ci sono.

Senza voler spaventare nessuno, ad esempio, sembra opportuno ricordare che una recente indagine del dipartimento del governo australiano responsabile della sicurezza dei minori ha rivelato che il cinquanta per cento del materiale ritrovato in siti pedopornografici nel corso di alcune operazioni di polizia proveniva da immagini e video pubblicati da genitori sui social. Spesso - molto più spesso di quanto si pensi-, peraltro, le foto dei nostri figli pubblicate online, contengono una serie di indizi preziosi per ogni genere di malintenzionato: dalla scuola che frequentano, alla squadra nellaquale giocano a pallone, dalla loro età, ai loro gusti, ai loro orari, al momento nel quale è più facile avvicinarli da soli.

Ma, anche senza guardare agli scenari più foschi - ai quali, pure, in relazione a altre dimensioni della vita dei nostri figli guardiamo spesso - il punto è che la dimensione digitale è ingorda di dati personali, li fagocita e accumula, li processa attraverso soluzioni tecnologiche sempre più evolute che consentono di ricavare profili sempre più affidabili di ogni utente per ricavarne conoscenza sui nostri gusti, le nostre inclinazioni, i nostri pregi, i nostri difetti, persino le malattie delle quali, magari, soffriamo senza saperlo, malattie che, ormai, in taluni casi, possono essere rivelate semplicemente lasciando che un algoritmo passi al setaccio una foto dei nostri occhi o di un altro qualsiasi particolare del nostro corpo.

E questa quantità di conoscenza può letteralmente cambiare la vita dei nostri figli, innanzitutto perché rende manipolabile da chi la possiede ogni genere di loro scelta di consumo, politica, religiosa, culturale, personale come professionale. Ma anche perché può - e, soprattutto, potrà - essere usata da assicurazioni o banche per chiedere loro di pagare un premio più alto o negar loro un finanziamento, da un datore di lavoro per non assumerli o da un professore per farsi una certa idea su di loro. È per questo - o, anche per questo - che, da adulti, dovremmo lasciare che siano i nostri figli a decidere se, quanto e cosa di loro condividere con il mondo e, anzi, guidarli a farlo in maniera consapevole, informata e prudente, ricordando le parole di Gabriel Garcia Marquez: tutti abbiamo tre vite, una pubblica, una privata e una segreta.